La crisi del cinema in Italia si configura come un fenomeno complesso e stratificato, risultante da una combinazione di dinamiche economiche, industriali, sociali e urbanistiche che hanno progressivamente alterato l’equilibrio della filiera. Non si tratta di un semplice rallentamento congiunturale, ma di una trasformazione sistemica che impone una rilettura critica tanto degli strumenti di sostegno pubblico quanto delle condizioni materiali e culturali in cui avviene la fruizione cinematografica.Sul piano dei dati, il 2024 restituisce un quadro eloquente: con “494 milioni di euro di incassi” e “69,7 milioni di presenze”, il mercato cinematografico italiano ha sostanzialmente replicato i valori dell’anno precedente, segnando un marginale “–0,4%” sugli incassi. La persistenza di un livello di stagnazione indica l’incapacità del sistema di recuperare la piena vitalità pre-pandemica, nonostante l’aumento dell’offerta produttiva. A ciò si aggiunge l’elevata concentrazione del box office: gli 88 titoli che superano il milione di euro rappresentano circa l’82% degli incassi totali, evidenziando una struttura polarizzata che marginalizza il cinema indipendente e d’autore. In questo contesto, il “tax credit” rappresenta la principale infrastruttura finanziaria della produzione nazionale. Nel 2024 il credito d’imposta ha raggiunto i 247 milioni di euro, su un volume produttivo complessivo stimato tra **800 e 840 milioni”, coprendo quindi “oltre il 30% dei costi” della produzione cinematografica italiana. Tale meccanismo ha indubbiamente garantito la continuità dell’industria e sostenuto la realizzazione di opere che, in assenza di intervento pubblico, difficilmente avrebbero trovato risorse sufficienti. Tuttavia, la dinamica che si è generata, un incremento della produzione non accompagnato da un corrispondente incremento della domanda in sala,  evidenzia un problema di allineamento strutturale: si producono più film di quanti il mercato espositivo possa assorbire, generando sovrapproduzione relativa e dispersione dell’offerta. La criticità più rilevante, tuttavia, riguarda la rete delle sale cinematografiche, che costituisce il presupposto materiale della fruizione collettiva. Negli ultimi decenni l’Italia ha assistito a una “contrazione drammatica del patrimonio espositivo”: dalle circa “2.700 sale storiche” si è scesi a poco più di “1.000 sale”, con la perdita di “circa 1.700 sale”, pari a oltre “il 63%”dell’intero sistema. In alcune aree urbane la riduzione assume carattere emblematico: a Milano si è passati da oltre 150 sale attive a poche decine; a Roma, in soli tre anni recenti, si contano “101 sale chiuse”. Si tratta di una trasformazione che non riguarda soltanto l’economia del settore, ma la geografia culturale del Paese: la chiusura delle sale implica la scomparsa fisica dei luoghi della visione, spesso sostituiti da funzioni commerciali o residenziali non reversibili. Questa perdita infrastrutturale ha effetti profondi sulla filiera: meno sale significano minori opportunità di programmazione, maggiore competizione per gli schermi residui, ulteriore polarizzazione dell’offerta e  soprattutto, “erosione del rapporto terreno con il pubblico”, che è l’elemento più difficile da ricostruire una volta interrotto. Alla luce di queste evidenze, appare imprescindibile una riforma degli strumenti di sostegno pubblico, a cominciare dal tax credit. È necessario introdurre “condizionalità strutturate” che colleghino gli incentivi fiscali alla valorizzazione della sala: finestre di sfruttamento teatrale garantite, premi per la distribuzione territoriale, obblighi o incentivi a investimenti in promozione nazionale, criteri di premialità per opere che attivano circuitazioni nelle sale indipendenti. Parallelamente, serve un “programma di sostegno diretto all’esercizio“, comprendente incentivi per l’efficientamento energetico, fondi per la digitalizzazione e il rinnovamento strutturale, sgravi fiscali locali e politiche urbanistiche che proteggano la destinazione culturale delle sale storiche. A queste misure economiche deve affiancarsi una strategia di lungo periodo sul versante culturale: programmi di “audience development” nelle scuole e nelle università, politiche integrate con il sistema educativo, festival diffusi capaci di riattivare la comunità intorno alle sale, strumenti di fidelizzazione come abbonamenti territoriali e iniziative che riportino la fruizione cinematografica nel vissuto quotidiano delle nuove generazioni. Infine, occorre una governance fondata sulla “trasparenza e sulla misurazione degli effetti”del sostegno pubblico: la produzione non può essere valutata soltanto in termini di costi sostenuti o quantità di opere realizzate, ma anche in base all’effettiva relazione con la sala, alla tenuta in programmazione, all’impatto territoriale. Senza un sistema di monitoraggio orientato agli esiti, il rischio è la perpetuazione di una filiera sbilanciata, nella quale la produzione prospera mentre l’esercizio si impoverisce. In conclusione, la crisi del cinema in Italia è il risultato di un disallineamento profondo: un settore produttivo sostenuto e dinamico, una rete espositiva in contrazione e un pubblico non ancora riconquistato. La rinascita non può avvenire soltanto attraverso incentivi alla produzione: richiede la ricostruzione dei luoghi della visione, la rigenerazione culturale dei territori e il riconoscimento della sala cinematografica come infrastruttura culturale essenziale. Solo un approccio sistemico, capace di riannodare i rapporti tra produzione, distribuzione, esercizio e pubblico, potrà restituire al cinema la sua funzione sociale, culturale e identitaria nel tessuto italiano contemporaneo.